Una tradizione antichissima: il culto delle anime purganti e le catacombe a Napoli
Luogo per eccellenza in cui da sempre leggenda e tradizione si coniugano, Napoli è la città della pizza, della canzone, dei vicoli, del sole e del mare, e visitarla significa venire a contatto con una città che, nonostante le sue problematiche, è sempre in festa e dove tutti sono pronti a rivolgere un saluto e a regalare un sorriso. Qui forte è la tradizione religiosa e festa per eccellenza è quella legata al culto del patrono San Gennaro. Ma altra tradizione particolarmente sentita dal popolo napoletano è legata al culto delle anime purganti, ossia resti mortali di persone delle quali è rimasta ignota l’identità e che per questo motivo vengono definite “pezzentelle”. Non avendo avuto una degna sepoltura e non potendo fare riferimento alle preghiere dei loro cari, vagano nel purgatorio e prendersi cura di loro ha significato per molti anni, rendere concreto il bisogno, presente nella tradizione folkloristica del Meridione, di dare concretezza fisica a ciò che non può essere tangibile: l’anima.
Si tratta di una tradizione che nasce in seguito alla terribile epidemia di peste che si abbattè sulla città nel 1656, in seguito alla quale centinaia di corpi furono depositati in antiche cave di tufo nei pressi della collina di Materdei che divenne un cimitero per poveri e diseredati, accresciutosi nel corso dei secoli. Oggi questo posto è conosciuto come “il cimitero delle Fontanelle”. Il culto vero e proprio nasce alla fine del XIX secolo quando fu costruita, a ridosso delle cave, la chiesa di Maria Santissima del Carmine e il padre Gaetano Barbati, con l’aiuto di alcuni devoti, mise in ordine le migliala di ossa accumulatesi. I napoletani, credendo e sperando di ritrovare in quei resti le orme di qualche antenato, cominciarono a prendersene cura “adottando” uno o più teschi, oggetto principale delle preghiere, ai quali si dava addirittura un nome, gli si offrivano fiori e foto di familiari e si costruivano delle piccole nicchie in marmo o in legno. Ovviamente si chiedevano in cambio, all’anima così “rinfrescata”, favori e grazie, la guarigione da una malattia, la liberazione delle pene d’amore.
Erano proprio i teschi il simbolo delle cosiddette “anime antiche” e della continuità, perché sono ciò che resta dei morti, ciò che del passato è presente. Questo culto fu vietato nel 1969 dal cardinale Ursi perché ritenuto arbitrario, superstizioso e per questo inammissibile. Attualmente non è più praticato ma, se i giovani napoletani lo conoscono per sentito dire, gli anziani ricordano perfettamente l’importanza del culto pieno di tradizione, fede, magia e mistero e che ancora oggi è possibile rivivere in un incredibile itinerario. Prima tappa è la chiesa di San Pietro ad Aram dall’antica e misteriosa storia, così chiamata perché, secondo la tradizione, custodisce l’Ara Petri, l’altare su cui pregò San Pietro durante la sua venuta a Napoli, battezzando Santa Candida e Sant’Aspreno, qui nominato primo vescovo della città. Originariamente doveva quindi trattarsi di una edicola religiosa, fondata per preservare la reliquia. La tradizione vuole che Santa Candida avesse abitato la cripta sottostante la chiesa, alla quale si accede mediante una scala dal transetto sinistro e che, in seguito i lavori di restauro nel 1930, si è rivelata essere l’originaria chiesa paleocristiana, divisa in tre navate.
Qui sono stati scoperti alcuni scheletri dei quali in uno si è voluto riconoscere proprio quello di Santa Candida il cui teschio è divenuto oggetto di venerazione e collocato per questo in una piccola nicchia collocata di fianco all’altare della quarta cappella della chiesa sovrastante.
Nata per volere di una congregazione di nobili per celebrare funzioni in suffragio delle anime del Purgatorio, è la chiesa del Purgatorio ad Arco seconda tappa dell’itinerario, così chiamata per la presenza nelle sue vicinanze di una torre medievale, distrutta al tempo del viceré don Pedro de Toledo, entro la quale si apriva un arco. Impossibile non notarla passeggiando lungo il decumano inferiore della città perché già all’esterno si presagisce, per la presenza di fittoni con teschi e femori in bronzo, l’atmosfera quasi surreale che si respira all’interno. Tutta la decorazione è incentrata su temi funebri in sintonia con il forte culto delle anime purganti attorno al quale sorse la chiesa e dove si celebravano addirittura fino a sessanta messe di suffragio al giorno. La parte più nota della chiesa è il cimitero sottostante, centro del culto delle anime del purgatorio.
Addentrandosi nella cripta tra mura spoglie e fredde, forte è il contrasto con lo sfarzo barocco della chiesa. Ma il turista non ne noterà la differenza perché, soprattutto entrando nella sala più interna, percepirà l’incredibile commistione di fede e superstizione testimoniata da scritte, santini, fiori che, seppur adesso risultano rispettivamente cadenti, spiegazzati e secchi, sono testimonianza di un popolo che credeva pienamente in questo culto e che, di conseguenza, confidava pienamente nelle preghiere rivolte a quelle “capozzelle” con le quali intrattenere una tenera conversazione fatta di baci, carezze e confidenze mormorate. Per la terza tappa dell’itinerario è necessario giungere alla Basilica di Santa Maria della Sanità dalla quale si accede a quella che un tempo fu l’ecclesia cimiteriale della catacomba di San Gaudioso, vescovo dell’Africa settentrionale, giunto a Napoli insieme ad altri ecclesiastici probabilmente nel V secolo e che qui fu sepolto. Furono i Padri Predicatori ad edificare l’odierna Basilica, a partire dal 1602, su disegno del frate domenicano Giuseppe Nuvolo (fine XVI-ini-ziXVII secolo), inglobando la chiesetta al di sotto dell’altare maggiore.
Gli stessi canonici effettuarono una ricognizione accurata del luogo e penetrarono nel retrostante coemeterium rinvenendo il sepolcro di Gaudioso e la sedia vescovile. Secondo la tradizione su questa sedia, attualmente in chiesa, sedevano le puerpere per invocare la protezione dei martiri della catacomba affinchè il parto non avesse complicazioni. Affascinante, piena di arte, tradizione e leggenda, è questa catacomba alla quale si accede dalla cripta sotto l’altare maggiore e dove viene proposto un percorso alla scoperta della più antica iconografia cristiana, testimoniata da affreschi ancora in buono stato di conservazione, ma anche di riti e usi tipici. Tra questi quello che impressionerà maggiormente i turisti, sono le cosiddette “cantarelle” o “scolatoi”, sedili scavati nel tufo e con un vaso sottoposto, su cui i defunti venivano disposti a disseccare prima di essere deposti in un ossario o in una tomba privata, ma anche alcune sepolture, dovute sempre ai domenicani, che vedono i crani di alcuni defunti incassati nelle pareti dell’ambulacro mentre la restante parte della figura murata e riprodotta sulla parete ad affresco ed accompagnata da contrassegni didascalici e cronologici indicanti lo status sociale del defunto.
Se per le catacombe di San Gaudioso è attestata la diffusione del culto delle anime purganti, non può dirsi la stessa cosa per altre due catacombe: quella meno conosciuta di San Severo e quella di San Gennaro, entrambe piene di fascino e mistero che sicuramente attireranno l’attenzione dei turisti. La prima sorge presso la seicentesca chiesa omonima progettata dal napoletano Dionisio Lazzari (7-1690), dedicata a San Severo (vescovo di Napoli per un lungo arco del IV secolo), alla quale si accede dalla seconda cappella a sinistra. Riportata alla luce non più di un secolo e mezzo fa, non si potette radicare anche qui il culto delle anime “pezzentelle”, ma è comunque molto suggestivo visitare questo ambiente di pochi metri quadri composto di due cubicoli, tre arcosoli e alcune tombe più povere scavate nel pavimento. Ultima tappa dell’itinerario, sono le catacombe di San Gennaro, che i turisti avranno l’opportunità di visitare dopo alcuni anni di chiusura. Di tutti i luoghi dedicati al santo in città, le catacombe sono sicuramente il luogo più suggestivo. Sono ubicate “extra moenia”, fuori le mura dell’antica Neapolis poiché, secondo la consuetudine del mondo classico, i defunti non potevano essere seppelliti all’interno, ma fuori delle mura cittadine.
Risalgono al II secolo d.C. e presumibilmente sorsero attorno ad un antico sepolcro gentilizio donato alla comunità cristiana che ne fece area cimiteriale ufficiale. Qui, nel II secolo d.C., fu ospitato – sepolto e venerato – Sant’Agrippino, primo patrono di Napoli, e dopo due secoli, il martire San Gennaro, del quale furono accolte le spoglie qui traslate da Pozzuoli. Le catacombe si estendono su 50.000 metri quadrati e, essendo state scavate nel tenero tufo giallo, è stato possibile realizzare strutture architettoniche particolarmente ardite che hanno consentito la realizzazione di ampi e grandiosi ambulacri. Si tratta di una struttura particolarmente interessante perché il suo percorso è ancora oggi scandito dalla presenza di pitture paleocristiane che concorrono a fare di questo uno dei luoghi più affascinanti della “Napoli sotterranea”, un fascino che viene accresciuto dalla conoscenza, tramandata da fonti antiche, che in città esistono altre catacombe, purtroppo non ancora riportate alla luce. Tra queste si ricordano: la catacomba di San Vito, la catacomba di Sant’Eufemia e quella di San Fortunato (entrambe situate nei pressi del vicolo dei Lammatari, rione Sanità) e la catacomba di Sant’Eusebio (alle spalle dell’Orto botanico). Solo di quest’ultimo ipogeo è visitabile una galleria.